Doppio invito alla visione
(a cura di Stefano Pagani)
Le aule giudiziarie sono da sempre luogo di composizione dei conflitti e ciò, col tempo, ha finito per renderle uno specchio della nostra vita. La combinata visione dei film qui proposti permette di scorgere l’umanità dietro l’apparente formalismo dei processi e, al contempo, di accorgersi come quelle stesse regole e norme, in realtà, appartengano anche alla quotidianità.
La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet
Il principio che sorregge ogni processo è il contraddittorio, ovvero il “confronto” fra le pretese di chi si scontra in giudizio, nella convinzione che quando bisogna decidere chi ha ragione e chi torto la verità non possa emergere unilateralmente.
Il film ci porta dentro la stanza dove una giuria americana deve decidere sull’innocenza o meno di un giovane ragazzo, accusato di aver ucciso il padre. La pena è la condanna a morte: sarà colpevole? Alcuni giurati non hanno dubbi, ma uno sì. Per il verdetto, tuttavia, serve l’unanimità e questo obbliga tutti -chi più volentieri, chi meno- a sedersi intorno a un tavolo e a cercare una risposta condivisa attraverso il confronto. Il film, con le sue inquadrature statiche, quasi teatrali, mette in secondo piano i protagonisti stessi (dei giurati non verrà detto nemmeno il nome…) per metterci di fronte a noi stessi. Anche noi, come una giuria, ogni giorno emettiamo dei “verdetti”, perché abbiamo delle opinioni sugli altri e in base ad esse li giudichiamo: quante sono state le volte, però, in cui abbiamo rimesso in discussione le nostre convinzioni, soprattutto quelle più granitiche, prima di dire “colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”?
Philadelphia (1993) di Jonathan Demme
Il processo è uno strumento di difesa dei diritti: beni della vita per i quali ciascuno lotta con forza e che rendono l’aula giudiziaria un autentico terreno di scontro fra verità diverse. Un terreno non privo di difficoltà.
Questo film capovolge l’approccio del precedente, ponendo al centro le emozioni e alcuni dei temi più drammatici degli anni ’90: l’AIDS e l’omosessualità, con lo stigma sociale che portavano con sé. Le prime scene inquadrano lo stereotipo di due avvocati, uno d’affari che si gode il successo (ma malato) e l’altro che invece s’affanna dietro le “giuste cause”, quasi a suggerire che quelle più remunerative siano le meno interessate al bene concreto delle persone. Tutto cambierà quando i soci del primo si accorgeranno della sua malattia e lo licenzieranno per un pretestuoso “calo di professionalità”. Ritrovatosi a dover far valere i propri diritti, anche il brillante avvocato si renderà presto conto di come l’aula processuale e la vita siano -purtroppo o per fortuna- vasi comunicanti. Il film offre la misura di quanto possa essere doloroso il percorso verso una nuova consapevolezza di sé e di ciò in cui si crede, o, per usare le parole di Eschilo, pathei mathos (conoscenza attraverso la sofferenza).
Recensione di Io capitano
(di Francesco Maria Albanese )
Io capitano (2023) di Matteo Garrone
In Io capitano, Matteo Garrone sfida le convenzioni consolidate del cinema italiano, percorrendo strade non battute con un racconto svincolato dai paradigmi narrativi che da anni attanagliano il nostro panorama cinematografico. Il film, difatti, non è un dramma strappalacrime, né una commedia spensierata, bensì una realistica rappresentazione della migrazione di due adolescenti senegalesi verso le coste italiane.
La pellicola, candidata agli Oscar 2024, è la prima produzione italiana a fornire uno spaccato di una realtà tanto lontana quanto vicina, un’esperienza che gli italiani non vivono di persona, ma di cui sempre di più respirano le conseguenze. Due giovani cugini, Seydou e Moussa, intraprendono il lungo percorso spinti non tanto da esigenze materiali, quanto da speranze di realizzazione personale.
Dell’Italia, i due senegalesi respirano attraverso i social le canzoni, le risate, il mito della bellezza, e più di tutto l’opportunità di portare a compimento i loro sogni. Lungo il percorso si palesano numerose insidie, tutte dovute all’influenza di potenti e inesorabili organizzazioni criminali, più che alla scarsezza di risorse dei viaggiatori. I due affrontano le avversità di un mondo ostile ed interessato unicamente al profitto personale, tanto che alla fine l’inesperto Seydou, non disponendo di abbastanza denaro per permettersi uno scafista, sarà costretto a guidare una nave straripante di migranti fino alle coste siciliane, assumendosi la responsabilità della vita di numerose anime. Da qui il titolo del film.
Io capitano è prima di tutto un film audace. Audace a livello creativo, perché non rientra nei canoni dell’attuale cinema italiano, perché i personaggi parlano unicamente nelle loro lingue natie e in francese, e perché gli attori non sono professionisti, bensì comuni abitanti africani; ma audace anche in un senso più materiale: la produzione ha impiegato enormi risorse nella realizzazione di un film poco appetibile a livello commerciale. Il risultato è una scenografia curata, a tratti sfarzosa per via di maestosi primi piani aerei e la possibilità di girare le scene in Africa, elementi che, uniti alla bilanciata regia di Garrone e alla inaspettata espressività emotiva degli attori, conferiscono al film un aspetto professionale assolutamente non scontato in Italia.
Il film è prettamente politico, ma non vede elementi di moralismo: la scelta di Garrone non è infatti quella di muovere una esplicita denuncia sociale e politica, accusando direttamente l’Italia di menefreghismo e insensibilità, quanto più di porre lo sguardo su una realtà complessa e problematica fotografandola oggettivamente, riprendendo quella imparzialità narrativa che anni addietro è stata la caratteristica fondante del neorealismo. Lo spettatore dunque, posto davanti ai fatti, è lasciato alle proprie conclusioni, le quali tuttavia presentano una scelta obbligata, ovvero quella di non ignorare le motivazioni dei migranti, né tanto meno le insidie che questi affrontano per giungere in Europa.