Testamento

(di Rigel Bellombra

Ti lascio ma non sei solo

erede di tutto e di niente

ché su questo suolo possa la gente

dire: “Qui si muore, irrimediabilmente,

e qui rinasce un fiore”.

Ho fatto credito a molti

e sono debitore

fa l’inventario dei torti,

poi quello dell’amore

paga la sarta, il becchino e il dottore

vendi ai vicini la casa al mare

e coi ricavi, mettiti a viaggiare.

Di casa nostra, quella di famiglia

cambia il tappeto che sta sulla soglia

ché le iniziali non sono più quelle.

Troverai in banca i miei trenta denari

alcune azioni e altri proventi

per imposte e pesi ereditari

più l’indulgenza per i miei tradimenti.

Del mio corpo,

consumato dal tempo e levigato dal mare,

fanne cerchi di fumo e sentieri di stelle.

Della mia morte e della mia pelle

lastrica i muri della vecchia stalla

il soffitto coloralo d’oro e cospargi il terreno di foglie d’alloro.

Poi tra profumi di gelso e di aranci

getta alle fiamme le foto e i miei quadri

ed ogni cosa che ti dia rimpianto

salvo gli ulivi dei nostri padri.

E ogni anno,

in questo giorno

eleva un canto per il mio ritorno.

A questo tavolo

di legno grezzo

angelo e diavolo,

invitati a pranzo

non lasceranno che amaro Avanzo

che si sfarina tra le tue dita.

Abbine cura:

quella

è la vita.



La guerra nucleare

(di Rigel Bellombra)


Ammazza come cadono ste’ bombe

c’avemo tutt’intorno n’arsenale

nun bastano nemmanco più le tombe

la chiameno “La guerra nucleare”.

Che poi er “nucleo” vero è sempre quello

che a furia de penzà ar comando e ai sordi

nun distinguemo più er brutto e er bello

e cancellamo puro li ricordi.

E mo’ me sta a venì la nostalgia…

quanno s’annava ar mare en Cinquecento,

co’ tasche piene sì, ma d’allegria…

che avèvemo sortanto sabbia e vento.

Lo sai cosa me manca de’ quei tempi?

L’odore der futuro e la speranza,

che l’omo ne ha saputo fa’ de scempi

ma a furia de riempisse tasche e panza

s’è ritrovato solo, in mezzo ar monno.

Na cosa ve la vojo di’, invece:

scannamose davero, fino in fonno!

Un giorno dovrà nasce na’ specie

de esseri che sanno quer che fanno!

E sulla razza umana scriveranno:

“Qui giace l’omo: er mejo der pianeta,

c’aveva er sole, er mare, a Cinquecento,

c’aveva l’arfabeto, l’A e la Zeta!

Ma è stato solo bono all’estinzione.

Qui giace l’Homo Sapiens: un cojone”.



Un uomo tranquillo

(di Rigel Bellombra ) 


Sono un uomo tranquillo

inseguo farfalle

ubriache

e poi strillo.

Ondeggio su amache

e sui tuoi tacchi a spillo

mi vesto di nero eppure io brillo

di luce riflessa o di luce soffusa

ho riflessi felini e non faccio le fusa.

Dico cose un po’ strane

corteggio le rane

trasformo in regine

le cortigiane.

Per ogni non senso

il cielo è più intenso

la luna è viola

e il mondo sorvola

su ogni parola, sui miei atteggiamenti

risate e commenti

di tutta la gente

mi sembrano pioggia,

che cade sul niente.

Sono un uomo tranquillo;

per il mondo distratto,

malato e un po’ matto.

La madre non l’ho

mai conosciuta

forse m’ha amato

ma a mia insaputa.

Mio padre invece, lo ricordo ancora

e l’ho conosciuto soltanto in quell’ora

in cui rincasava e però la famiglia

attraversava la sua bottiglia…

Fino alla sera

in cui prese sua figlia

e la primavera

non ebbe più foglia.

Poi fu soltanto sirene spiegate

puzzo di fumo, polvere e sangue

e quando mi chiesero al commissariato

di confessare di avere sparato

dissi di sì, perché fossi creduto

l’unica volta che avevo mentito.

Lasciai la scuola e gli azzurri suoi banchi

per pigiami a righe e camici bianchi

un cervello svogliato poi fece il resto

mi ritrovai uomo,

ma troppo presto. 

Un uomo tranquillo

che insegue farfalle

e corteggia le rane:

mi chiamano matto,

le persone sane.

Domani andrò alla foce del fiume

dove ebbe inizio ogni cosa più bella

sarò farfalla

e rana

e sorella…

dal punto più alto si abbraccia il mare

sarò uno sposo davanti all’altare

il celebrante non saprà capire

che chi sa volare non può morire.

Arance e cioccolata 

(di Rigel Bellombra, per Saman Abbas

Io non giudico Teresa: 

rubava arance e cioccolata 

per i suoi tre figli; 

sembrava più vecchia della sua età, 

sembrava più sporca, 

mentre puliva si sentiva sporca. 

Ma Saman è partita 

perché voleva amare. 

Io non giudico Antonello 

che rubava i trasferelli 

all’uscita della scuola. 

Aveva già i capelli bianchi 

e non ha smesso di giocare. 

Ma Saman è partita 

per dove non si può tornare. 

Io non giudico Mathias, 

che rubò un maglione 

ai mercati generali. 

“Avevo freddo”, disse, 

e pianse di vergogna. 

Scontò anni di galera 

e oggi non lavora 

e si trascina a stento 

tra la folla, che lo ignora. 

Ma Saman è partita 

per dove non si può tornare. 

E chi ruba la vita 

io lo voglio giudicare 

come chi ruba al mondo 

la libertà d’amare. 



Il procuratore

(di Rigel Bellombra)

In fondo noi ce semo già capiti:

stanno ridotti a quattro li indagati.

Su quattro, i primi tre so’ incensurati

er quarto è n’assassino impenitente

de’ ergastoli, gliene hanno già affibiati

(ch’aveva trucidato un po’ de gente).

Ma lui continua a dì: “Io so’ innocente!”.

Sarebbe stato er mejo reo confesso

e invece dice che nun c’entra niente

e va a inguaiarce a noi, questo gran fesso!

Degli artri tre, er primo è un deficiente:

anche a provà che è lui che ha ammazzato

nemmanco je levamo la patente

vedrai come ce smonta, l’avvocato…

Se invece ce va bene, chi le sente

l’associazioni de volontariato

ce ritrovamo ‘n piazza un quarche ente

pe’ dì che nun doveva esse imputato.

Un artro nun ci ha alibi, è un ragazzo

raccoglie i pommidori a tutte l’ore

sta sempre ne’ li campi a farsi er mazzo…

E dopo ci ha ‘n difetto: è de colore!

Tu pènsate la stampa de sinistra

scriverebbero der capro espiatorio

e ce mettemo contro la ministra

si je toccamo l’extracomunitario.

Er punto è che l’urtimo è ‘n portento:

è vedovo, ha tre figli e un core d’oro

cor su stipendio li sfamava a stento

e s’è trovato un secondo lavoro.

Così mantiene tutta la famija

e riesce a fa’ studia pure la fija

da poco iscritta all’università:

nun pare proprio er tipo da ammazzà…

Ma quant’è vero che so’ procuratore

dei quattro, armeno uno va ‘n prigione:

Sentite, io ve parlo con er core:

dovemo condannà quello migliore!

Nell’ufficio der procuratore

rimbombarono li silenzi

pareva ‘na gran pausa d’attore

(che manco era capace er sor Fabrizi)

co’ er pubblico che n’artro poco more

da ‘ a voglia de sentì come finisce.

Un p.m., se vorta all’artro lato

e se schernisce:

“So l’urtimo arrivato,

me rincresce”.

Un artro, solerte magistrato

pijato dar nervoso, un po’ tossisce

poi pensa alla carriera ed annuisce.

N’artro ancora, resta muto

a fissà ‘a punta de’ su scarpe lisce.

Finché non interviene er Sostituto,

se pija er peso de uscì dall’ambasce:

“Che poi se tratta solo de quarch’anno

vedrai che je riducono la pena

e co’ le attenuanti che je danno

je durerà assai poco sta’ catena”.

“Allora siam d’accordo e siamo uniti”

concluse il Procuratore

“Tanto non siamo negli Stati Uniti:

qui mica un condannato muore…

Ar massimo se pijerà ‘n ergastolo

nun lo stamo a mannà mica ar patibolo!”.

Si strinsero le mani con calore

e, avendo ritrovato il buonumore,

decisero di andare al ristorante;

offrì per tutti il Procuratore.

Il pasto prelibato ed abbondante

accompagnato da un costoso vino

si chiuse con un brindisi birbante:

alla giustizia, ai magistrati e all’assassino.



Il suicidio di Aiace 

(di Rigel Bellombra)


Te l’hanno detto, Odisseo?

Che scaraventai il mio corpo giù per le scale

per la strada insudiciata.

Te l’hanno detto, sì?

Che lastricai il selciato

mentre sputavo nella polvere il tuo nome

e il mio sangue avvelenato.

Mentre la gente non si dava pace

un passante mi chiamò Assassino

altri piangevano

e dolce

e fugace

era l’ora del destino.

Io scagliai su quel gregge un grosso sasso

e dal terreno spuntava un fiore rosso.

Qui non si muore più

qui

non si muore più.

Te l’hanno detto, Odisseo?

Di quello sparo sordo

che anche i sordi udirono nel centro del paese,

mentre il sole irradiava le immense distese

e un calore soffocante avvolgeva case e chiese.

Te l’hanno detto, sì?

Che anelavo l’agonia che pulsa

più della morte dove tutto tace

e furono più di 1000

i nemici che sconfissi, con mano feroce

come faceva Achille.

E quando lui morì, te l’hanno detto, sì?

Colpito da una freccia, sul campo di battaglia

io chiesi a quella feccia, quella lurida gentaglia

che sempre siede ai posti di comando,

di avere le sue armi,

per l’onore che non svendo

e per il merito che porta il valoroso che combatte muto

più di chi trama all’ombra col suo fare astuto.

Ad altri danno quello che mi spetta

e ogni vittoria scolora già in disfatta.

Non pare vero che l’uomo del futuro

abbia il medesimo volto

amaro e menzognero

dell’uomo che fu

cantato da Omero.

Questo è il sangue di Aiace

accecato dal dolore.

La vergogna si addice

soltanto

a chi ha l’onore.