Il Club, in sinergia con il primo Seminario in Italia dedicato a Diritto e Cultura (Ravenna, facoltà di Giurisprudenza), presenta la sezione “SÌ legge”, dove “si legge” (e si scrive) di tutto quanto inerisca alla legge e ai diritti in connessione con le varie arti.
“SÌ legge” intende stendere un ponte tra il Club e l’Università, costituendo un luogo di incontro tra giuristi e artisti. Si ospiteranno saggi, canzoni, poesie, recensioni cinematografiche, guide all’ascolto musicale, consigli di lettura e altri prodotti artistici, che presentino un nesso con la trasparenza e la legalità, con questioni sociali di rilievo nazionale o internazionale e che invitino a riflettere sugli stretti rapporti tra arte e diritto.
RECENSIONE A FILM
Io capitano, di Matteo Garrone
(Recensione di Francesco Maria Albanese)
In Io capitano, Matteo Garrone sfida le convenzioni consolidate del cinema italiano, percorrendo strade non battute con un racconto svincolato dai paradigmi narrativi che da anni attanagliano il nostro panorama cinematografico. Il film, difatti, non è un dramma strappalacrime, né una commedia spensierata, bensì una realistica rappresentazione della migrazione di due adolescenti senegalesi verso le coste italiane. La pellicola, candidata agli Oscar 2024, è la prima produzione italiana a fornire uno spaccato di una realtà tanto lontana quanto vicina, un’esperienza che gli italiani non vivono di persona, ma di cui sempre di più respirano le conseguenze.
Due giovani cugini, Seydou e Moussa, intraprendono il lungo percorso spinti non tanto da esigenze materiali, quanto da speranze di realizzazione personale. Dell’Italia, i due senegalesi respirano attraverso i social le canzoni, le risate, il mito della bellezza, e più di tutto l’opportunità di portare a compimento i loro sogni. Lungo il percorso si palesano numerose insidie, tutte dovute all’influenza di potenti e inesorabili organizzazioni criminali, più che alla scarsezza di risorse dei viaggiatori. I due affrontano le avversità di un mondo ostile ed interessato unicamente al profitto personale, tanto che alla fine l’inesperto Seydou, non disponendo di abbastanza denaro per permettersi uno scafista, sarà costretto a guidare una nave straripante di migranti fino alle coste siciliane, assumendosi la responsabilità della vita di numerose anime. Da qui il titolo del film.
Io capitano è prima di tutto un film audace. Audace a livello creativo, perché non rientra nei canoni dell’attuale cinema italiano, perché i personaggi parlano unicamente nelle loro lingue natie e in francese, e perché gli attori non sono professionisti, bensì comuni abitanti africani; ma audace anche in un senso più materiale: la produzione ha impiegato enormi risorse nella realizzazione di un film poco appetibile a livello commerciale. Il risultato è una scenografia curata, a tratti sfarzosa per via di maestosi primi piani aerei e la possibilità di girare le scene in Africa, elementi che, uniti alla bilanciata regia di Garrone e alla inaspettata espressività emotiva degli attori, conferiscono al film un aspetto professionale assolutamente non scontato in Italia.
Il film è prettamente politico, ma non vede elementi di moralismo: la scelta di Garrone non è infatti quella di muovere una esplicita denuncia sociale e politica, accusando direttamente l’Italia di menefreghismo e insensibilità, quanto più di porre lo sguardo su una realtà complessa e problematica fotografandola oggettivamente, riprendendo quella imparzialità narrativa che anni addietro è stata la caratteristica fondante del neorealismo. Lo spettatore dunque, posto davanti ai fatti, è lasciato alle proprie conclusioni, le quali tuttavia presentano una scelta obbligata, ovvero quella di non ignorare le motivazioni dei migranti, né tanto meno le insidie che questi affrontano per giungere in Europa.
CANZONE
In ricordo di Ebru
(di Rigel Bellombra, Canzone per Ebru Timtik)
Avevo una Casa,
avevo un Paese,
avevo un Amore
e una toga da portare con onore.
Oggi, in una patria galera,
ho piantato il primo fiore
di una nuova primavera.
Se vi dirà, qualcuno:
“L’ha uccisa il digiuno”,
gridategli che sazia
soltanto la Giustizia…
e che chi muore adesso
senza un vero processo
muore solo a metà:
già vive in un domani
fatto di libertà
e di diritti umani.
POESIA
Arance e cioccolata
(di Rigel Bellombra, per Saman Abbas)
Io non giudico Teresa:
rubava arance e cioccolata
per i suoi tre figli;
sembrava più vecchia della sua età,
sembrava più sporca,
mentre puliva si sentiva sporca.
Ma Saman è partita
perché voleva amare.
Io non giudico Antonello
che rubava i trasferelli
all’uscita della scuola.
Aveva già i capelli bianchi
e non ha smesso di giocare.
Ma Saman è partita
per dove non si può tornare.
Io non giudico Mathias,
che rubò un maglione
ai mercati generali.
“Avevo freddo”, disse,
e pianse di vergogna.
Scontò anni di galera
e oggi non lavora
e si trascina a stento
tra la folla, che lo ignora.
Ma Saman è partita
per dove non si può tornare.
E chi ruba la vita
io lo voglio giudicare
come chi ruba al mondo
la libertà d’amare.
POESIA
Il procuratore
(di Rigel Bellombra)
In fondo noi ce semo già capiti:
stanno ridotti a quattro li indagati.
Su quattro, i primi tre so’ incensurati
er quarto è n’assassino impenitente
de’ ergastoli, gliene hanno già affibiati
(ch’aveva trucidato un po’ de gente).
Ma lui continua a dì: “Io so’ innocente!”.
Sarebbe stato er mejo reo confesso
e invece dice che nun c’entra niente
e va a inguaiarce a noi, questo gran fesso!
Degli artri tre, er primo è un deficiente:
anche a provà che è lui che ha ammazzato
nemmanco je levamo la patente
vedrai come ce smonta, l’avvocato…
Se invece ce va bene, chi le sente
l’associazioni de volontariato
ce ritrovamo ‘n piazza un quarche ente
pe’ dì che nun doveva esse imputato.
Un artro nun ci ha alibi, è un ragazzo
raccoglie i pommidori a tutte l’ore
sta sempre ne’ li campi a farsi er mazzo…
E dopo ci ha ‘n difetto: è de colore!
Tu pènsate la stampa de sinistra
scriverebbero der capro espiatorio
e ce mettemo contro la ministra
si je toccamo l’extracomunitario.
Er punto è che l’urtimo è ‘n portento:
è vedovo, ha tre figli e un core d’oro
cor su stipendio li sfamava a stento
e s’è trovato un secondo lavoro.
Così mantiene tutta la famija
e riesce a fa’ studia pure la fija
da poco iscritta all’università:
nun pare proprio er tipo da ammazzà…
Ma quant’è vero che so’ procuratore
dei quattro, armeno uno va ‘n prigione:
Sentite, io ve parlo con er core:
dovemo condannà quello migliore!
Nell’ufficio der procuratore
rimbombarono li silenzi
pareva ‘na gran pausa d’attore
(che manco era capace er sor Fabrizi)
co’ er pubblico che n’artro poco more
da ‘ a voglia de sentì come finisce.
Un p.m., se vorta all’artro lato
e se schernisce:
“So l’urtimo arrivato,
me rincresce”.
Un artro, solerte magistrato
pijato dar nervoso, un po’ tossisce
poi pensa alla carriera ed annuisce.
N’artro ancora, resta muto
a fissà ‘a punta de’ su scarpe lisce.
Finché non interviene er Sostituto,
se pija er peso de uscì dall’ambasce:
“Che poi se tratta solo de quarch’anno
vedrai che je riducono la pena
e co’ le attenuanti che je danno
je durerà assai poco sta’ catena”.
“Allora siam d’accordo e siamo uniti”
concluse il Procuratore
“Tanto non siamo negli Stati Uniti:
qui mica un condannato muore…
Ar massimo se pijerà ‘n ergastolo
nun lo stamo a mannà mica ar patibolo!”.
Si strinsero le mani con calore
e, avendo ritrovato il buonumore,
decisero di andare al ristorante;
offrì per tutti il Procuratore.
Il pasto prelibato ed abbondante
accompagnato da un costoso vino
si chiuse con un brindisi birbante:
alla giustizia, ai magistrati e all’assassino.
CANZONE
Dal profondo del cuore
(di Rigel Bellombra, in memoria di Enzo Tortora)
Mi chiamo Enzo
e sono innocente
non posso provare
che non ho fatto niente.
Io non mi so spiegare
questa confusione
tra un giornalista
della televisione
e un camorrista
da mandare in prigione.
“Cinico mercante di morte”,
dice il pubblico ministero
ed è oltraggio alla Corte,
se urlo: “Non è vero”.
Alle 4 del mattino, i Carabinieri
come i criminali veri,
mi dicono: “è agli arresti”
sebbene io manifesti
che qualcosa non torni
se chi mi accusa
è detto “Killer dei cento giorni”.
Sono io la parte lesa,
in questa giustizia malata
frodata e vilipesa,
o è la Camorra Organizzata?
Sono libero, scomodo, perbene
e il giudice ritiene
che dieci anni di galera
siano la giusta maniera
per sgominare il malaffare.
Mi fanno ammanettare
con la RAI che manda in onda,
per ore e ore
le immagini un po’ dure
del conduttore spacciatore,
che ha voluto rinunciare
all’immunità parlamentare.
La vita è tutto o niente
da uomini liberi si muore
lotterò per tutti noi.
Io sono innocente,
spero dal profondo del cuore
che lo siate anche voi.
POESIA
Testamento
(di Rigel Bellombra)
Ti lascio ma non sei solo
erede di tutto e di niente
ché su questo suolo possa la gente
dire: “Qui si muore, irrimediabilmente,
e qui rinasce un fiore”.
Ho fatto credito a molti
e sono debitore
fa l’inventario dei torti,
poi quello dell’amore
paga la sarta, il becchino e il dottore
vendi ai vicini la casa al mare
e coi ricavi, mettiti a viaggiare.
Di casa nostra, quella di famiglia
cambia il tappeto che sta sulla soglia
ché le iniziali non sono più quelle.
Troverai in banca i miei trenta denari
alcune azioni e altri proventi
per imposte e pesi ereditari
più l’indulgenza per i miei tradimenti.
Del mio corpo,
consumato dal tempo e levigato dal mare,
fanne cerchi di fumo e sentieri di stelle.
Della mia morte e della mia pelle
lastrica i muri della vecchia stalla
il soffitto coloralo d’oro e cospargi il terreno di foglie d’alloro.
Poi tra profumi di gelso e di aranci
getta alle fiamme le foto e i miei quadri
ed ogni cosa che ti dia rimpianto
salvo gli ulivi dei nostri padri.
E ogni anno,
in questo giorno
eleva un canto per il mio ritorno.
A questo tavolo
di legno grezzo
angelo e diavolo,
invitati a pranzo
non lasceranno che amaro Avanzo
che si sfarina tra le tue dita.
Abbine cura:
quella
è la vita.